
Nei giorni scorsi ha piovuto.
Ha iniziato piano, con l’odore della terra stanca di vento a riempire le narici e non ha smesso più.
Mi sono incantata ad osservare i randagi della mia colonia, gonfi di pioggia sul fienile davanti a casa, immobili nell’attesa.
Dopo quarantacinque giorni di lock down la sento sulla pelle la stanchezza delle persone, mi entra nell’anima quando faccio le sedute con i pazienti, mi prende allo stomaco in certi post su facebook, boli di rabbia.
La vedo negli allenamenti di mio figlio, musica trap a urlare per lui, ripetizioni di pesi come un membro di una gang a San Quintino, che finché sono i muscoli a farti male puoi non ascoltare nessun altro dolore.
E allora penso che forse stiamo tutti come al trentesimo chilometro di una maratona, quando hai tanta strada nelle gambe ma il traguardo non lo vedi ancora e non sopporti più niente, nemmeno chi sta correndo con te, e tutto é solo un grumo di fatica.
E poi mi dico che io no.
Io sto diventando un gatto. Ogni giornata perfettamente conclusa in se stessa, collezioni di attimi identici, ad attendere un presagio di sole.
Che poi io la pazienza dei gatti l’ho imparata da bambina, ore seduta sui gradini della grande casa al lago ad aspettare che mio padre tornasse dall’ospedale dove lavorava.
È morto che avevo sei anni.
Ho capito troppo presto che ogni ritorno è un dono.
Penso spesso a lui in questi giorni. Sui giornali vedo la facciata di mattoni rossi del Civile di Brescia e mi ritrovo rannicchiata sulla scala di marmo a guardare la strada da cui lo avrei visto arrivare.
Sempre troppo tardi e troppo stanco.
Ho diviso la nostra poca vita con i suoi malati.
Era un medico di tempo di pace mio padre.
Per lui uno valeva uno.
E quell’uno tutto il mondo.
Vecchi camuni con le mani spaccate di lavoro e il fegato indurito dalla grappa o ragazzi della Val Trompia,cresciuti in fretta fra bestemmie e tondini, non c’era differenza, c’era solo la lotta.
Lui ci credeva in questa cosa di curare gli esseri umani. E anche che tutti siamo uguali su questa terra, ma questa é un’altra storia.
Sarà per questo che impazzisco quando sento parlare di etá dei morti per Covid e di patologie pregresse
Perché morire per un cazzo di virus dopo aver sputato sangue per sconfiggere un altro male è uno strazio, non un’attenuante e regalare un estate in più a un ottantenne vale come un Nobel per l’economia.
E così io sto ferma.
Senza lamentarmi.
Nemmeno dopo due mesi.
Perché ci sono ancora persone che stanno male lá fuori e medici che non rivedono le loro figlie. E tutto mi sembra più importante del mutuo che farò fatica a pagare.
E la pazienza é l”unica preghiera che conosco.
Quando tutto sarà finito, a pensarci bene, non voglio fare niente più di questo.
Dare da mangiare ai gatti del fienile.
Ascoltare e trovare le parole giuste per chi soffre.
Sedermi ogni sera ad aspettare che quelli che amo tornino a casa.