La pazienza dei gatti

Nei giorni scorsi ha piovuto.
Ha iniziato piano, con l’odore della terra stanca di vento a riempire le narici e non ha smesso più.
Mi sono incantata ad osservare i randagi della mia colonia, gonfi di pioggia sul fienile davanti a casa, immobili nell’attesa.
Dopo quarantacinque giorni di lock down la sento sulla pelle la stanchezza delle persone, mi entra nell’anima quando faccio le sedute con i pazienti, mi prende allo stomaco in certi post su facebook, boli di rabbia.
La vedo negli allenamenti di mio figlio, musica trap a urlare per lui, ripetizioni di pesi come un membro di una gang a San Quintino, che finché sono i muscoli a farti male puoi non ascoltare nessun altro dolore.
E allora penso che forse stiamo tutti come al trentesimo chilometro di una maratona, quando hai tanta strada nelle gambe ma il traguardo non lo vedi ancora e non sopporti più niente, nemmeno chi sta correndo con te, e tutto é solo un grumo di fatica.
E poi mi dico che io no.
Io sto diventando un gatto. Ogni giornata perfettamente conclusa in se stessa, collezioni di attimi identici, ad attendere un presagio di sole.
Che poi io la pazienza dei gatti l’ho imparata da bambina, ore seduta sui gradini della grande casa al lago ad aspettare che mio padre tornasse dall’ospedale dove lavorava.
È morto che avevo sei anni.
Ho capito troppo presto che ogni ritorno è un dono.
Penso spesso a lui in questi giorni. Sui giornali vedo la facciata di mattoni rossi del Civile di Brescia e mi ritrovo rannicchiata sulla scala di marmo a guardare la strada da cui lo avrei visto arrivare.
Sempre troppo tardi e troppo stanco.
Ho diviso la nostra poca vita con i suoi malati.
Era un medico di tempo di pace mio padre.
Per lui uno valeva uno.
E quell’uno tutto il mondo.
Vecchi camuni con le mani spaccate di lavoro e il fegato indurito dalla grappa o ragazzi della Val Trompia,cresciuti in fretta fra bestemmie e tondini, non c’era differenza, c’era solo la lotta.
Lui ci credeva in questa cosa di curare gli esseri umani. E anche che tutti siamo uguali su questa terra, ma questa é un’altra storia.
Sarà per questo che impazzisco quando sento parlare di etá dei morti per Covid e di patologie pregresse
Perché morire per un cazzo di virus dopo aver sputato sangue per sconfiggere un altro male è uno strazio, non un’attenuante e regalare un estate in più a un ottantenne vale come un Nobel per l’economia.
E così io sto ferma.
Senza lamentarmi.
Nemmeno dopo due mesi.
Perché ci sono ancora persone che stanno male lá fuori e medici che non rivedono le loro figlie. E tutto mi sembra più importante del mutuo che farò fatica a pagare.
E la pazienza é l”unica preghiera che conosco.
Quando tutto sarà finito, a pensarci bene, non voglio fare niente più di questo.
Dare da mangiare ai gatti del fienile.
Ascoltare e trovare le parole giuste per chi soffre.
Sedermi ogni sera ad aspettare che quelli che amo tornino a casa.

Giorni dispari

É fiorito il glicine, quello bianco e caparbio, che si infila dalle fessure delle imposte sino ad entrare in camera di mio figlio. Di solito lo tagliavo, ma quest’anno lo lascio fare, perché la bellezza non mi sembra mai abbastanza.
Venerdì é passata un’ altra settimana.
Io le settimane le conto così, forse perché é di venerdì che la vita come la conoscevo ha smesso di esisistere.
L’ultimo giorno del mondo vecchio ero a Milano.
Fra un paziente e l’altro sono andata a farmi mettere lo smalto dalle ragazze cinesi vicino a corso Genova. Parlavano fitto, nella loro lingua che a me sembra
sempre il suono di un ruscello.
Il negozio era vuoto, indossavano guanti e mascherina, non ci ho fatto caso,le cose dissonanti le metto via, in qualche angolo polveroso.
Sono passati quarantatré giorni. Lo smalto si é piano piano staccato, tranne una piccola traccia, sull’anulare. Non la tolgo. Voglio ricordarmi che un pomeriggio di mille anni fa, prima dello tsunami, la vita era prevedibile, mi sentivo al sicuro, forse persino bella e avevo voluto dipingermi le unghie di rosso.
Quello é stato anche il giorno in cui ho smesso di appuntare su un’agenda un sacco di cose da fare che mi sembravano importantissime e adesso non sono più niente.
Ora scrivo solo di me, per riannodare i fili, perché io mica lo voglio scordare questo tempo immobile.
Di questa cosa del rivedere le nostre agende ne ha parlato anche il Papa.
“Devi assolutamente guardarlo perché ci benedice tutti!” ha tuonato mia madre al telefono.
Ho pensato ecco, ormai è come la nonna Margherita, che quando il prete veniva a benedire casa per Natale, gli faceva girare tutte le stanze, con quella fede dei semplici che non si sa mai che i muri fermino le preghiere.
Per me invece la religione é sempre stata un gran casino.
Figlia di una donna che ha studiato dalle suore e del mito di un padre comunista. É morto che avevo sei anni, ma certe assenze fanno un rumore assordante. Questo Papa però mi piace,davvero. Sarà perchè con quell’accento lento e quella esse strascicata da italiano d’Argentina quando parla di fratellanza mi sembra il Che, e le mie due anime riescono a stare finalmente insieme. Così ho acceso la televisione, e ho visto un uomo stanco con i capelli radi seduto in silenzio. Le spalle curve. Mi sono detta che la vita fa questo alle spalle. E che i dolori ti scavano dentro come i cerchi che dicono l’età degli alberi. Ogni cerchio ad amplificare quello dopo. Io non so mica pregare , ma questo vecchio solo,vestito di bianco, che non ha pudore di mostrarsi ferito mi ha restituito il senso del sacro.
Un po’ come la Madonna imperfetta che sta all’incrocio fra due strade del mio borgo.
La Madonna ha polsi grossi, contadini, il bambino guance rosse e il moccico al naso, un Gesú di collina. Li ha dipinti l’Emilio, il mio vicino di casa.
Era una persona gentile l’Emilio. Se lo é portato via il Covid, qualche giorno fa. Sono andata a portargli dei tulipani, di nascosto, camminando fra le vigne che stanno germogliando, perché faccio una grande fatica ad accettare queste morti senza fiori.
E poi mi sono seduta su un muretto di pietra, ho acceso una sigaretta e mi sono concessa di essere immensamente triste.
E se dovessi scegliere un super potere, uno solo, io vorrei tenere questa mia vulnerabilità.
Alla faccia dei decaloghi dei miei colleghi psicologi sulla perfetta quarantena in cui bisogna vestirsi, truccarsi, coltivare hobby, cucinare come Cracco, leggere grandi classici, essere resilienti.
Così se hai un nodo in gola, mangi Simmenthal e non ti togli il pigiama da dieci giorni pensi anche di essere sbagliata. E invece,magari, sei solo triste,cazzo! E dirsi la fragilità è un modo resistere.
E anche alla faccia di chi ti dice che se non vivi in trentametriquadricontrefigli non puoi piangere,perché a volte è l’anima a fare male.
E alla faccia degli arcobaleni.
Perché io lo so che andrà tutto bene, ma adesso stiamo come il mio glicine d’inverno.
E così oggi è un giorno dispari e io mi sono concessa il grande privilegio di essere triste.
Per l’Emilio che non vedrà maturare l’uva.
Per i morti senza fiori.
E per chi vorrebbe essere triste ma non riesce e allora urla forte la rabbia.

Il giorno della marmotta

Qui nelle retrovie ogni giorno è una ripetizione di gesti identici a se stessi.
Altro giorno, stessa merda dice mio figlio con lo splendido ottimismo di un adolescente ad Alkatraz. Si sta trasformando in un ibrido fra il giovane Werther e Morgan Freeman nelle Ali della Libertà, e io lo amo follemente.
È tornato il freddo a dire alla camelia che era troppo presto per fiorire.
Stanotte ho messo le lucine sulle finestre, come quando aspetti Natale.
Soffiava un vento gelido e sbagliato qui in collina, sono uscita ugualmente.
Non so perché all’improvviso illuminare questi muri di pietra stanca mi sembrava la cosa più importante del mondo.
Ognuno resiste come può.
Qualcuno ha imparato a fare il pane. Qualcuno scrive poesie.
Qualcuno urla, qualcuno ascolta silenzio. Qualcuno davvero non ci riesce, se dentro stavi già male l’isolamento ti devasta. Molti, moltissimi, travestono di rabbia la paura.
Io accendo luci.
Se ci penso è anche il senso del mio lavoro.
Continuo a farlo, il mio lavoro.
Non abbastanza, non quanto vorrei.
Vedo i pazienti via Skype. (Ogni tanto uno dei miei cani entra nell’inquadratura della webcam, è un gran casino il setting al tempo del Coronavirus, si è più vicini, a dispetto della distanza). Ascolto la loro angoscia, cerco di dire le parole che non trovano per rendere pensabile l’indicibile. Tracciamo insieme sentieri percorribili. Ogni tanto mi perdo.
E scandisco questo tempo immobile.
Al mattino esco alla stessa ora, vado a prendermi cura dei randagi della colonia felina. Mi siedo sui gradini ad osservare la loro quieta diffidenza. Due gatte partoriranno a breve. Mesi fa sarebbe stato solo un problema, ora questa indifferenza della natura ai nostri affanni per me è quasi una benedizione.
Porto la colazione a mia madre. Le sto lontana, non la tocco. La proteggo, come la rosa del Piccolo Principe.
Non mi ha mai detto l’amore con il corpo la mia mamma, ma queste carezze che lei non mi ha mai dato e che oggi non posso darle io sono macigni. A ottobre compirà novant’anni. Una “perdita accettabile” per molti, una di quelle per cui non vale la pena fermare un paese.
Mentre beveva il caffè mi ha recitato Montale.
“com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”
Lei che a volte non ricorda se ha mangiato. E allora penso a quante poesie, ricette di gnocchi di patate, traiettorie di bocce, racconti di battaglia, tracce di memoria ci stanno lasciando. Ci sveglieremo da quest’incubo e saremo un paese senza più storia.
Nel tardo pomeriggio ci sono le notizie, quelle che non vorresti sapere, ma devi, l’informazione è una droga.
Il primo giorno di primavera sono morte 719 persone.
Signori un po’ impacciati hanno letto cifre con lo stesso tono di una lista della spesa, la ragazza che parla con la lingua dei segni ha scritto la tristezza nell’aria. Ora non guardo più il bollettino delle 18.
I numeri hanno il potere di appiattire il dolore.
Parlano alla testa, diventano subito alibi e statistiche.
Come fai a sentire con il cuore quanto è grande un numero? Come te le immagini seimilasettantasette persone che non ci sono più?
E allora penso che ci vorrebbe una voce gentile, in quell’ora che segue il tramonto, una voce che trasforma i numeri in nomi.
E noi, zitti, ad ascoltare. Che di tempo ormai ne abbiamo, e di cose sensate da dire davvero poche.
Un rosario laico, sul fare della sera.
Antonio era un bravo medico sapeva suonare il sax tenore.
Giuseppe, il Bepi , costruiva case bellissime.
Maria, la chiamavano Marì, le piacevano tanto le rose. Giuseppina aveva sei nipoti, tutti biondi.
Luigi, ha fatto la campagna di Russia.
Bortolo non si perdeva una partita della Dea.
Silvia ha combattuto il cancro.
Angelo e Lina, si sono amati tanto.
E avanti così, a ricordare frammenti di vite. A ridare sacralità alla morte.
Ma il lutto ha un passo lento, e qui si muore veloci.
A volte mi arrivano segnali dal fronte. Mi scrive Sara, una paziente di tanto tempo fa, infermiera in un ospedale come tanti qui al nord. Racconta giornate di disperazione. É una tosta Sara. Quando questa tragedia é iniziata si é offerta volontaria per il reparto di malattie infettive. “Se ghe de anda andom” si é detta, con quel coraggio rassegnato che solo i bergamaschi hanno. Per la gente delle valli il sacrificio é la normalità. Finisce ogni messaggio dicendo dottoressa mi raccomando stia a casa, ora é lei a preoccuparsi per me e io vorrei piangere le lacrime che lei non puó, invece le mando un goffo cuore viola.
Qui nelle retroguardia la battaglia non c’è. C’è la sua attesa. E l’attesa si popola di fantasmi.
Abbiamo finito di cantare.
Cerchiamo colpevoli.
Ognuno può essere il nemico.
Mamme di bimbi piccoli contro pisciatori di cani. Sedentari contro runner…In questa fatica che si misura a metri quadri, che la quarantena del vicino é sempre più verde.
É così che questo virus ti fotte il cervello anche se attacca i polmoni.
Qui nelle retrovie dobbiamo solo stare fermi, adesso.
Dobbiamo solo resistere, restare umani e tenere accese le luci per quando la guerra finirá perché ci sarà molto da ricostruire.

La torta di mele

Sto a casa.
Ho fatto la torta di mele.
Mi siedo.
Aspetto.
Ho così tanto tempo ormai che posso stare seduta ad osservare la torta lievitare, lo zucchero in superficie che si fa dorato. Lo zen e l’arte di sopravvivere al Covid19.
Sul frigorifero di fronte a me c’è un invito a visitare una facoltà di medicina. Una delle tante in cui ti avrei dovuto accompagnare. Il cartoncino é tenuto da calamite inutili che raccontano viaggi in paesi lontani. Sono proprio le schegge di normalitá che danno forma all’assurdo.
Sull’invito c’è scritto Open é il 14 marzo, il 14 marzo di un’altra vita. E mi sembra di essere la protagonista di un romanzo di Stephen King, seduta in cucina a tagliare le mele e a fare finta di niente mentre fuori il mondo che conoscevo non esiste piú .
Poi arrivi, ti siedi di fronte a me, a distanza di sicurezza dalla mia mano che vorrebbe scompigliarti i capelli. A diciott’anni le carezze di una madre sono acido muriatico.
Smetto di fissare il forno e ti guardo. Da quanto non lo facevo davvero? Non ti sei fatto la barba,sembri più grande. Tieni le spalle meno dritte,tre settimane senza sport iniziano a farsi sentire, o forse le hai chiuse a proteggere il cuore. Gli occhi invece, quelli sono gli stessi di quando eri bambino. Pensieri veloci, lampi di verde, nuvole rapide (anche se tu i Subsonica non sai nemmeno chi sono). Hai sempre avuto domande nello sguardo. Ora più di sempre vorrei avere le risposte. Ma c’è questo tavolo sporco di farina fra di noi e questo silenzio irreale.
Fai fatica ad addormentarti alla sera. Ti sento rigirarti nel letto, muoverti per le stanze.
Da me, dalla mia luce accesa non vieni mai. Ieri però mi hai raccontato un incubo.
Dovevi andare a trovare un’ amica, era notte ed eri solo. Ti si accendevano tutte le spie di allerta della macchina, ma andavi avanti, per arrivare da lei dovevi attraversare un ospedale, i malati erano infetti, sembravano i tossici mangiati dal Krokodile. Non trovavi l’uscita, eri in trappola.
Fede secondo me…
Mamma, risparmiami le tue minchiate da psicoanalista.
Che poi io la psicoanalista la faccio davvero, ma per maneggiare mio figlio aspetto che qualche collega più illuminata mi scriva un tutorial sull’isolamento con un adolescente, perché se ti dipingessi un arcobaleno e ti dicessi andrà tutto bene, molto probabilmente risponderesti ,ridendo, “Tutto bene un cazzo”. E avresti pure ragione, e la cosa dissonante in questa comunicazione sarebbe solo la risata.
E così sto qui, con l’unica domanda sensata strozzata in gola.
“Hai paura?”.
Ma tu non puoi ancora permetterti di essere vulnerabile.
Io sono vecchia e ho fatto pace con le mie ferite.
E allora vorrei dirti che se fossi in te io avrei una paura fottuta.
Come quando ero piccola e qualcuno faceva saltare in aria le stazioni, con dentro la gente stanca che già pensava al mare, e io non sapevo se dopo tutto quel dolore qualcosa sarebbe mai stato come prima.
E se fossi in te io sarei incazzata, perché questo é l’anno della tua maturità e ti meritavi di pensare solo a quella, ti meritavi di sognarla di notte, per anni, come tutti noi, perché quello era il rito di passaggio. La maturità voi ve la state guadagnando sul campo, crescendo all’improvviso, che dopo questo, nessun esame avrà più senso.
E poi ti meritavi un’estate stupenda, in giro per un’ Europa diversa, una senza frontiere. E magari avresti incontrato una ragazza bellissima che parlava un’altra lingua e anche solo un centimetro da lei sarebbe stato troppo. E invece devi capire da solo quanto pesa un metro di distanza, che un bacio può uccidere e che il più grande gesto d’amore é stare lontano da chi ami.
E vorrei chiederti scusa, a te e ai ragazzi come te, perché la mia generazione vi ha usato come capro espiatorio dei propri limiti. Vi giudichiamo perché non sopportiamo di non riuscire a restituirvi un senso.
Persi in questa altalena fra la negazione e la psicosi, (che in fondo poi sono la stessa cosa) abbiamo preteso che foste più responsabili di noi, non l’abbiamo mica voluta vedere la fragilità dietro la spavalderia, eravamo troppo occupati a contemplare le macerie delle nostre certezze.
Insomma quante cose avrei potuto dirti.
Invece ti do una fetta di torta di mele.
Come mia madre quando provava a riempire l’assenza con le polpette.
E stiamo fermi.
In questa casa di pietra in cima alla collina. Sotto un cielo senza più aerei.
Ad aspettare la primavera.
#covid19 #iostoacasa

Betulle

20200221_134448

Il venerdì in cui il paziente uno é entrato al pronto soccorso di Codogno, stavo mangiando noodles alla rosticceria cinese all’angolo con il mio studio.
La rosticceria é un negozio piccolissimo, la padrona del locale é piccolissima anche lei e sorride sempre, con quel sorriso che hanno solo gli orientali, quello che parte dagli occhi, mentre la bocca rimane un passo indietro.
ll venerdì che ricorderemo come l’inizio di tutta questa follia, ai tavoli c’erano un venditore di rose pakistano e due ragazzi di colore, quando hai tre euro per mangiare il coronavirus è l’ultimo dei tuoi problemi. Appoggiati al bancone una coppia di anziani asiatici, sembravano usciti dalle illustrazioni di un libro sulla Cina ai tempi di Mao. Li avevo già notati la settimana prima, mi aveva colpito il senso di totale estraneità da tutto, lo smarrimento di lei, la mano nodosa di lui sulle sue spalle, in un gesto di protezione incerto. Devo averli guardati un istante di troppo perché la proprietaria si é affrettata a spiegarmi che i signori erano i suoi suoceri e arrivavano dall’altra parte di Milano. Ma loro sembravano due betulle sradicate dalla piena di un fiume. Mentre parlava la signora gentile non sorrideva più con gli occhi e si capiva che aveva paura che io potessi avere paura. Io a Covid19 non ci pensavo proprio ( forse un fugace “ma perché proprio i pangolini!”, lo ammetto) e sentivo solo una grande tenerezza e avrei voluto dirlo a lei e alle sue betulle che io lo sapevo come si sentivano e anche che non venivano da Gratosoglio e non mi importava. Invece non ho detto nulla. La mia vita é piena di silenzi sbagliati.
In questi giorni sospesi ho ripensato a quel venerdì e alla mia totale incapacità di preoccuparmi per me stessa, come se il prendermi cura degli altri riempisse tutto lo spazio disponibile.
Questo marzo strano mi sta facendo due regali molto preziosi, lo spazio per riflettere e tempo con mio figlio. E se tuo figlio ha diciotto anni il tempo insieme vale oro. Dentro di me ho ascoltato cosa faceva risuonare questa malattia venuta da lontano.
Perché io con i virus ho un rapporto tutto mio.
Ho avuto l’epatite B a tre anni, mi ha accompagnato come un sottofondo fastidioso, non più malata, non del tutto guarita, comunque infetta. Da bambina mi terrorizzavano gli esami del sangue continui, da adolescente mi sono incazzata per i gin tonic che non potevo bere, quando sono cresciuta ho dovuto combattere l’imbarazzo di dirlo al mio uomo. Ehi ciao, sai che fare l’amore con me é una roulette russa?
Durante l’università ho iniziato a fare volontariato al Sacco con i malati di Aids. Erano i tempi degli spot TV con gli aloni viola. I tempi in cui potevi solo tenere la mano a chi di quella cosa ci moriva. Io a volte mi toglievo i guanti, che anche un micron mi sembrava una distanza troppo grande e bastava il contatto della pelle contro la pelle a far tacere la vergogna.
Al quinto mese di gravidanza mi é venuta la varicella. Passavo le notti a pregare il dio della placenta, fa che non passi, fa che non lo tocchi, ferma questo schifo.
Al nono mi é tornata l’epatite, stessa merda, ma molto più cattiva di prima.
Stavo malissimo.
Il mio latte era veleno.
Federico piangeva e io non potevo sfamarlo. Avrei potuto ucciderlo con il mio amore.
Ci ho lavorato anni per superare questa cosa, i virus costellano immagini potenti.
Ho comunque imparato tanto, so cosa vuol dire sentirsi contagiosi, so cosa vuol dire il terrore di fare del male.
Nonostante il mio senso atrofico dell’ansia, se oggi mi dicono di prendere precauzioni per tutelare chi è più debole io lo faccio senza discutere.Punto.
Dei “miei” virus non butto via niente, mi hanno insegnato a non avere paura di nulla, a usare la mia fragilità per entrare in contatto con le fragilità degli altri.
Del Covid-19 ho letto che si può trasmettere anche con le lacrime.
Un cazzo di malattia che non ti lascia asciugare le lacrime di chi sta male, un cazzo di malattia che non puoi piangere senza sentirti in colpa, che limita la libertá e ti fa sentire per una volta che lo straniero da temere puoi essere tu. Una malattia così riapre ferite, ti costringe a guardare in faccia le tue ombre,a fare i conti con la vulnerabilità, perchè in fondo tutti siamo betulle.
Io non lo so mica quanto durerà questa emergenza, ma quello che so è che, se avremo il coraggio di guardarci dentro invece di limitarci a giudicare gli altri, alla fine di questo incubo, potremmo, forse,svegliarci migliori.
#covid19

Controvento

Perdonami se in questi giorni non sono stata al tuo fianco amica mia, ma quella cosa che é morta ieri mica eri tu, era un ciclamino appoggiato in un letto.
Tu eri andata giá via, in punta di piedi, semplicemente hai spento quella testa incredibile e il cancro non ti ha potuto più fare male. Hai vinto tu. Ma questo non mi consola. Mica lo so come farò a cominciare le mie giornate senza le battute al vetriolo e il tuo affetto goffo, che non mi hai detto mai che mi volevi bene, però sulla tovaglia di plastica a fiori, alle sette del mattino, trovavo sempre un piattino con i miei biscotti preferiti. Li compravi solo per me, maledicendo il tuo diabete ogni volta.
Avevi gli spigoli di chi amata non si é sentita mai, su quegli spigoli si infrangeva il mondo.
E nel tuo mondo hai deciso di lasciarmi entrare. Forse perché, orgogliosa come sei, fingevi di credere che venissi da te solo per i gatti. O perché eravamo due straniere fra gente che non sará davvero nostra mai.
Poco importa. É stato un privilegio esserti amica, tenerti la mano quando hai iniziato a stare male.
E mi si impigliano frammenti di te fra le lacrime.
La moca pronta sul fornello e l’odore delle MS mischiato al caffé.
I golfini di Gemelli lisi, riposti con cura nella naftalina, a ricordare una vita diversa. La calligrafia minuta sulle etichette dei surgelati, che neanche nella cucina di Cracco. I cruciverba che da quando c’é quel coglione del figlio, il Bartezzaghi non é la stessa cosa e le carte ingiallite di un solitario che non veniva mai. E poi il tuo rapporto ruvido con i randagi. Cosí diverso dal mio. Tu li accudivi senza pretendere che ti amassero, che poi forse avevi ragione tu e l’amore vero é proprio questa cosa qui.
Sei stata una gattara in un paese che i gatti li odia, e io non riesco a trovare una metafora più bella per la tua vita controvento.
Qualche giorno fa io e Matteo ci siamo seduti sui gradini di casa tua, fra i mici della colonia confusi dalla tua assenza.
Abbiamo aperto due birre e messo l’internazionale, proprio come volevi tu. Poi abbiamo brindato alla tua salute. E abbiamo parlato di te, abbiamo pianto, un sacco e riso, tantissimo. Se tu ci fossi stata ti avremmo offerto un negroski.
Cazzo Laura, é stato un funerale perfetto, quello che la tua anima bella si meritava. E ora vola via leggera, compagna Bedogni, che a combattere qui rimaniamo noi.

La misura dell’amore

Stanotte é finita l’estate.
É successo all’improvviso,
mentre ero distratta,
se l’é portata via questo vento bagnato che sa di terra stanca e mosto.
Gli anni scorsi non era così.
L’arrivo dell’autunno non mi coglieva alla sprovvista, me lo diceva la Lina.
L’estate finiva semplicemente quando lei raccoglieva gli ultimi fiori arancioni dall’aiuola davanti a casa e si preparava per tornare in città.
Partiva sempre un po’ prima della prima pioggia, per portarsi una memoria di sole nella nebbia di pianura.
La Lina e l’Emilio
arrivavano a Giugno nella grande casa di pietra accanto alla mia, diventavano il metronomo delle mie giornate, le scandivano con ritmo costante del loro vivere quieto.
Li conoscevo da sempre, senza averli conosciuti mai. Il paese é un cantastorie. Si erano incontrati tardi la Lina e l’Emilio, lui aveva girato il mondo suonando ballabili sulle navi da crociera, lei non era mai uscita da Golferenzo, schiava di una famiglia ingombrante. Radici e prigioni a volte si confondono.
Si erano trovati tardi, ma non si erano lasciati più.
Ogni mattina passeggiavano, tenendosi per mano, parlando fitto, come se la notte fosse stata una separazione insopportabilmente lunga.
Verso sera, ogni sera, uscivano in macchina per andare al piccolo bar all’aperto del borgo.
Lina portava sempre con sé due maglioncini, uno bianco per lei ed uno grigio melange per Emilio, le piccole premure di una vita insieme, quando conosci il freddo dell’altro come se fosse il tuo. Li sentivo tornare tardi, mi incuriosiva il tempo che passava fra lo sbattere delle due portiere.
Così li ho spiati, da dietro le tende chiuse.
Emilio scendeva ad aprire la portiera a Lina, le porgeva il braccio, poi la richiudeva piano.
Quel gesto ripetuto e paziente, quell’intervallo silenzioso fra i due rumori é diventato per me una misura dell’amore.
Anche quest’anno ho aspettato di vedere le imposte verdi aprirsi, di vedere la Lina potare le rose.
A San Pietro e Paolo l’erba nell’aiuola si é fatta alta, troppo.
Al funerale della Lina ho pianto tutte le lacrime che avevo, l’ho fatto dietro gli occhiali scuri, vergognandomi di quel dolore da estranea. Ho singhiozzato come i bambini quando capiscono che le favole non esistono. Poi ho visto l’Emilio. Stava fermo, sotto il sole, con i fiori arancioni in mano e il maglione grigio addosso, che il gelo da dentro non gli andava piú via. L’ho visto e ho capito che per lui non era mica finito niente. Allora ho dovuto andare a dirgli grazie, per la portiera e le estati, grazie per la favola. Gli ho detto che un amore come il loro io non l’avevo visto mai, che un amore cosí non te lo poteva portare via nessuno, nemmeno dio.
Ma lui lo sapeva giá…

Brad and Janet

Non riesco a dormire.
Ascolto la pioggia.
Come diciotto anni fa.
La notte in cui sei nato pioveva una pioggia così, la città intera, all’improvviso, si era fatta acqua.
Noi non avevamo l’ombrello e la macchina era quasi senza benzina.
Lo sapevamo che saresti arrivato e anche che avrebbe piovuto, ma la verità è che nella vita non ci sono ombrelli a sufficienza e non sei mai davvero preparato ad essere genitore.
Camminavamo sotto il diluvio, tuo padre aveva il passo veloce e agitato.
Io avevo queste onde, dentro. Ogni tanto dovevo fermarmi, ad ascoltare le maree. E il dolore. Invece di coprirmi la testa, tenevo le mani sulla pancia, come se dovessi difenderti dalle gocce ghiacciate. Credo che la maternità sia questa cosa qui, questo tentativo un po’goffo di proteggere a mani nude. Il senso di essere noi mi é venuto in quel tratto di strada, fra corso Genova e la Mangiagalli, col rumore delle macchine sul pavé bagnato. E mi veniva anche un po’ da ridere, che sembravamo Brad e Janet nella scena iniziale di Rocky Horror. Dicevo a papá, ridendo le lacrime, siamo due coglioni e lui faceva finta di star serio. Ci conosci ormai, è il nostro gioco, da sempre, per sempre.
Avevo una paura fottuta, mica lo sapevo come fare la madre. La madre di un maschio. Facevo sogni terribili. Tu eri troppo pesante, io non riuscivo a salire le scale di casa e mi sedevo sconfitta sui gradini.
Oppure eri nudo, d’inverno e non avevo niente con cui coprirti.
Poi ti hanno appoggiato su di me, hai messo quei tuoi occhi incredibili nei miei occhi e io ho capito che tutto sarebbe andato bene, che tu eri la bussola di capitan Sparrow e mi avevi portato esattamente dove dovevo andare. Sei stato un bambino meraviglioso Federico. Sei un giovane uomo speciale. Essere tua madre è la parte migliore di me. Grazie.
E ora va a prenderti il mondo.

La mappa

screenshot_20190320-101321_chrome1278909479934503588.jpg

Avevo sei anni quando mio padre è morto.
Lui quarantadue.
Nel comodino della sua camera d’ospedale
la Gazzetta dello Sport, due libri di Agatha Christie e l’inizio di una poesia per me.
Non ha avuto il tempo di finirla.
Mi sono cercata per tutta la vita senza capire che ero già lì, in quelle poche righe scritte con il tratto veloce di chi deve partire.

“Dalla piccola mano
Paola
Tenera vita della mia vita.
Nata
a queste solite cose
A questa aria, a questa luce
Ai cieli sereni tracciati in gioia
da rondini nere
Ai mari,agli orizzonti
Alle dolci cose,agli amori
Agli uomini ed alle donne di tutti i colori.
Ai bimbi, ai cani
Alle formiche dalle lunghe file
Al rosso,al vino,ai canti
Alle lotte ,ai sogni,alle polemiche.
Paola,
Nata a questa vita
Con occhi sognanti,increduli
Vedrai
Il padre….un ricordo
La madre un rimpianto
I libri fedeli compagni
Paola
Ricorda la vita che hai
è l’unica cosa
Null’altro
La vita persegui e vivi
Non ci sarà un padre a scegliere con te
ma nessuno ti vinca mai
e non dire mai sono stanca!”

Auguri papà.
Ho costruito un giardino attorno alla tua assenza.
Sogno forte, combatto contro i mulini a vento. Mi prendo cura della tua Teresa,l’ho perdonata, ho perdonato me. Vivo nel rimpianto di non esserci capite mai. Mio figlio ha i tuoi occhi e una mente affilata, lo ameresti da morire. So a memoria Per i morti di Reggio Emilia, la canto ad alta voce, quando sono un po’ ubriaca e nessuno mi ascolta. Ho i capelli rossi. Mi sono persa. Ho inciso una mappa di parole sulla pelle, per non smarrirmi più. Non uccido le formiche. Da poco tempo ho imparato a riconoscere la donna nello specchio. A volte le sorrido.
Credo negli esseri umani. Non mi spaventano i colori. Ho sempre avuto grandi cani gentili al mio fianco. Ascolto. Sto da trent’anni con lo stesso uomo, che per me l’amore, da quando sei andato via, è nei gesti lenti ripetuti, nella prevedibilità dei ritorni.
Questa sono io.
Ma tu lo sapevi già.

Friday,I’m in love..

Fridays for future.
Accompagno mio figlio in stazione,sei e venti come ogni mattina, che da noi lo studio è sonno e fatica.
Federico frequenta una grande scuola austera, una di quelle istituzioni oltrepadane in cui il tempo si è fermato e l’eccellenza viene confusa con la rigidità.
Di solito viaggiamo in silenzio, con i pensieri ancora infreddoliti e qualche rapper del Gratosoglio incazzato nero in sottofondo.
Oggi però ha voglia di parlare.
La sua scuola non aderirà allo sciopero per il clima, anzi, la preside ha fatto sapere di non vedere di buon occhio gli studenti che parteciperanno alla manifestazione.
Dice che ha deciso di non entrare a scuola comunque.
É iscritto all’indirizzo di “Gestione ambiente e territorio”. Gli sembra tutto assurdo. É una questione di coerenza mamma.
Mi vergogno un po’, penso che la nostra generazione sia un po’ come la sua preside, immobile su una nave che affonda, un’orchestra patetica in sottofondo,
convinta che l’iceberg non la riguardi.
Lo ascolto.
Mi sembra di amarlo più del solito questo progetto d’uomo.
Sono orgogliosa.
Non glielo dico. Ed è un po’ un’occasione persa.
Ciao Ma.
Scende dalla macchina.
Ha un eskimo verde, una spalla più bassa dell’altra e l’andatura di chi non ha ancora capito quanto può correre lontano.
Penso forza ragazzi, andate a prendervi il mondo.
Poi cambio musica sull’autoradio, perchè va bene l’amore, ma il trapper della Bovisa è troppo…