La Madonna dei Gatti

La Madonna dei gatti assomigliava a migliaia di altre Madonne.
Aveva gli occhi celesti e i tratti di una femminilità fragile e rassicurante che lo capivi subito che l’aveva scolpita un uomo.
In quel giardino c’era arrivata per caso.
Forse da Loreto.
Qualcuno di ritorno da un pellegrinaggio l’aveva regalata a Laura,
di professione gattara amareggiata,
rossa come il sole dell’avvenire,
con un rapporto decisamente complicato con la divinità e suoi ministri.
Per un po’ aveva abitato in cantina, fra i sacchi di crocchette e gli scatoloni dei ricordi da dimenticare.
Poi lei le aveva trovato posto fra la rosa e il melograno.
Per quel senso del sacro che solo gli atei sanno avere.
Oppure semplicemente perché, in una sera di quelle davvero nere,come la Vanoni, si sarà detta ” proviamo anche con Dio non si sa mai”
Non si può dire che fossero diventate amiche, ma non le faceva mai mancare un fiore, che le Madonne a queste cose ci tengono.
Quando il suo uomo si era schiantato in macchina,quasi vergognandosi, l’aveva persino chiamata per nome.
Maria ti prego non farlo morire.
Ma il Luciano a casa non ci era più tornato.
Le era montata una rabbia, più forte anche della disperazione.
Aveva lasciato che i fiori appassissero, l’acqua diventasse putrida e non le aveva mai più chiesto un favore, neppure quando era venuto il cancro a bussarle alla porta
Così la Madonna rimasta sola aveva iniziato a vegliare sui gatti.
In fondo era una madre e questo sapeva fare.
Ma non era mica un lavoro facile.
Perché gli animali di peccati non ne hanno . All’inizio non riusciva ad accettare di non poterli salvare tutti. E anche questa cosa che le avevano raccontato per tenerla tranquilla, che Dio chiama a sé i migliori per farne suoi angeli, non se la beveva più, perché di angeli con la coda e le vibrisse non ne aveva visti mai.
Urlava al suo titolare
” Abbellooo guarda che gli egiziani mica avevano tutti i torti “.
( poteva permettersi questa confidenza per via di una relazione che avevano avuto un paio di mille anni prima)
Litigava spesso con suo figlio e con quello più in alto, perché se il mondo lo avesse creato lei mica ci avrebbe messo dentro tutto questo dolore.
Come quell’inverno che una malattia schifosa se ne era portati via dodici.
Prima tutti i cuccioli e poi anche Gennaro, un micione mite e gentile che aveva visto crescere e diventare il capo indiscusso del gruppo. Lei lo amava tanto perché aveva la sua stessa pazienza, la stessa consapevolezza che la bontà fosse un superpotere.
Aveva pianto come certe sue colleghe più famose, ma senza farsi vedere da nessuno.
O come quando Zorra la coraggiosa e la piccola Menta non erano più tornate.
E lei si sarebbe strappata dalla faccia quel sorriso ebete che le avevano dipinto per poter urlare forte l’angoscia.
Di notte non dormiva finché non li aveva contati, al sicuro, dietro al cancello della colonia.
Poi, piano piano aveva capito.
Glielo avevano insegnato loro.
Aveva imparato che il loro tempo non era quello degli uomini, ogni giorno era concluso in se stesso. Non avevano nemmeno bisogno di inventarsi un paradiso perché erano liberi dalla paura della morte.
Estati senza il presentimento dell’inverno.
Allora aveva smesso di incazzarsi e si limitava a chiedere al suo boss che non facesse troppo freddo a dicembre.
O che, se proprio doveva portarglieli via, lo facesse succedere così, mentre sonnecchiavano dopo un giorno di caccia.
Niente rantoli, respiri affannati, occhi incollati dal pus.
Pregava anche che le due sciroccate che avevano preso il posto di Laura imparassero in fretta la lezione, prima di vederle con il cuore in frantumi.
Poi chiudeva gli occhi
E faceva collezione di attimi.
Piccoli istanti di felicità perfetta.
Ormai era un gatto anche lei e non si era mai sentita così vicina al divino.

Nostra Signora del vento

Avevo i capelli lunghi.
Una vita per farli crescere.
Rossi come diventava il rame quando mia nonna e la Cesca si chiudevano per due giorni nella cucina della casa al lago e non uscivano finché l’ultimo pentolino non era tirato a lucido.
Una mattina non mi sono sentita più rossa dentro, che ci vuole fuoco,energia e passione per portarlo un colore così.
Li ho tagliati.
E ho deciso che ero bianca.
Tipo Gandalf quando ritorna dagli abissi, e non lo sai se è vivo o morto comunque é bianco , potente, e tanto basta.
Credevo di non avere più bisogno che gli sguardi degli altri mi dicessero che ero bella.
Potevo permettermi persino di sembrare più vecchia. Un grande lusso per una donna signori miei.
Certo si fa presto a dire bianco.
Prima del bianco perfetto sei gialla, grigia, verdina che nemmeno le bandiere al Gay pride.
Ci ho messo due anni, ma ci sono arrivata.
Candida e immacolata.
Figo mi sono detta.
Ma perché non biondo pesca.
Ora sono qui che fisso questa strana signora color albicocca nello specchio.
E penso “lo hai fatto un’altra volta, stronza”
Perché sono così da sempre.
Scalo queste montagne altissime senza un motivo.
E gioco a salire più veloce degli altri, con uno zaino più pesante, senza ossigeno, magari bendata.
Quando arrivo in cima mica lo so più perché sono partita, allora scendo, senza nemmeno piantare una bandierina, che di essere arrivata fin lì davvero non m’importa.
Come quando in seconda liceo classico mi é sembrata un’idea vincente massacrarmi per fare due classi in una, con maturità finale. Ho studiato così tanto che Leopardi scansate proprio.
Per finire un anno prima, ho detto a tutti, ma non era mica vero.
Non me ne facevo niente del tempo.
Era il solito sacrificio inutile alla dea insaziabile che mi abita. Nostra signora delle voragini, prenditi anche la mia adolescenza, ma per una volta dimmi che non sono sbagliata.
All’università per me trenta era poco.
Il giorno della tesi correvo solo per la lode.
E poi nemmeno ho appeso la laurea alla parete. L’ha incorniciata mia madre. Nostra signora dell’apparire , fatti bella con la mia fatica.
Il diploma di scuola di specialità ho dimenticato di andare a ritirarlo.
Non sono diventata socia della società psicoanalitica che mi aveva formata.
Per essere accettata avrei dovuto scrivere una domanda con le mie motivazioni. Ci ho messo sei mesi. Ho ancora il foglio bianco, da qualche parte in soffitta.
Nostra signora del coronamento vedi a cosa rinuncio pur di farti incazzare.
Un giorno mi sono appassionata alla fotografia sportiva.
Sono diventata brava. Così mi dicevano.
Ma non mi bastava.
Volevo diventare la più brava.
Più di tutti gli uomini che affollavano la sala stampa e riempivano i giornali di immagini senz’anima.
Quando ci sono riuscita l’ho capito dal loro odio. Ma a me la sfida non interessava già più . Ero in qualche posto dall’altra parte del mondo, avevo sputato sangue per essere lì, volevo solo tornare a casa . Il pomeriggio in cui ho venduto i miei obiettivi non ho versato nemmeno una lacrima. Nostra signora del pieno e del vuoto, non importa quanto vado lontano, mi riporti sempre a te.
Eppure, nonostante tutto, i miei pezzi stanno insieme.
Ho dentro una linea rossa dritta come un fuso.
Mi tiene salda.
É la costanza dell’amore.
Sto da trent’anni con lo stesso uomo, il primo che mi ha avuto, l’unico che ho mai voluto avere.
Ho un figlio che ho saputo difendere da me.
Tifo Inter da una vita.
So ascoltare anche le cose non dette.
Mi chino per prendermi cura di chi incrocia la mia strada.
So perdonarmi.
Nostra Signora del vento gelido, in fondo ho vinto io.

La Duse

Un paio di mesi fa Teresa si é sentita male.
Mi ha chiamato alle tre di notte.
Sono corsa subito, con il cappotto sopra al pigiama , un peso da una tonnellata sul cuore e un corvo nero nella testa che mi gracchiava ” Ci siamo”.
Perché mia madre é una grande rompicoglioni, telefona mille volte per dire che ha litigato con Alexa, ma un aiuto vero, quello non lo chiede mai.
L’ho trovata sul divano,
rannicchiata come si sta quando si nasce.
“Sto morendo, ciao bambina, ti voglio bene.”
E siccome da sempre Eleonora Duse le lustra le scarpe, mi é venuto anche un po’ da ridere.
Così sono rimasta per qualche istante immobilizzata , con il corvo sulla spalla , gli occhi lucidi e la voglia di applaudire e dirle “Buona la prima, adesso alzati però “
Ma lei non si alzava.
Così mi sono inginocchiata.
“Lo so che tanto non muori Teresa, ma nel dubbio ti amo anch’io e sei stata una brava madre.”
E su questo ci sarebbe stato molto da aggiungere.
A modo tuo,
ad esempio.
Ma una che fa millenni di psicoanalisi e poi diventa psicoterapeuta mica può sbagliare la battuta finale, che poi magari il pubblico se ne accorge che la protagonista non é poi così risolta.
Ad un tratto ha iniziato a tremare.
A dire cose senza senso.
E indicava qualcosa che c’era solo da qualche parte nella confusione che l’aveva mangiata.
Ho iniziato a pensare ad anni in cui mi avrebbe chiesto
Tu chi sei?
Ai pannoloni che fanno sembrare gli anziani dei neonati indifesi e rugosi.
Al circo delle badanti stanche che spingono carrozzine parlando al cellulare in qualche lingua dell’Est.
Mi sono detta cazzo no.
Non così, questo non te lo meriti.
Se devi andare via fallo stanotte, con I capelli biondo platino, i tuoi sbalzi d’umore da prima donna e la divina commedia recitata a memoria.
Ho chiesto ad Alexa una ninna nanna e le ho appoggiato la testa sul mio grembo.
L’alba ci ha trovate così .
lei a decidere se restare o dissolversi.
Io a fare la pace con tutto quello che ancora non mi ero perdonata di non averle perdonato.
Alle sei ho chiamato l’ambulanza.
Due giorni dopo, quando l’hanno dimessa, nessuno ha saputo spiegarmi cosa avesse avuto.
Mi sono detta che forse i vecchi sono come gli alberi secolari, affrontano mille uragani e ti illudono di non cadere mai, poi basta un temporale estivo per schiantarli.
La signora che é uscita dall’ospedale é un acquerello sotto alla pioggia, ogni giorno perde un po’ di colore e di pezzi della sua storia.
Scrive un sacco di foglietti con i nomi e le cose che non vuole che svaniscano per sempre.
E poi li perde.
La lotta per accettare la sua nuova fragilità la rende triste e incazzata.
Però si é fatta la tinta,
sa ancora i gironi dell’inferno e del paradiso, e ogni mattina decide che anche oggi si va in scena.
Insomma La Duse forse vedrà i suoi novantuno anni. Qualche giorno fa ha fatto il vaccino.
Per l’occasione si é voluta mettere una casacca di seta e una collana bella perché per lei che un dottore l’aveva sposato l’arrivo di un medico é sempre un avvenimento.
Mentre le pungevano il braccio ho provato un amore per lei che così non l’avevo sentito mai. Senza più ombre né recriminazioni. Amore e basta.
Dai Teresa, che le prove generali le abbiamo fatte e ora che il Covid non ti potrà costringere a morire da sola, quando vorrai far calare il sipario, io sarò lì a tenerti la mano. Poi ti farò una standing ovation. E te la meriti.
( nella foto Eleonora Duse, ma vi giuro potrebbe essere Teresa…)

La Giuseppina

E così oggi sono andata a fare il vaccino.
Sono entrata, quasi vergognandomi, in una grande stanza piena di gente ordinata, mi sono seduta su una sedia un po’ rotta, in un angolo nascosto.
A un metro da me
un signore distinto, con un completo grigio, mani ossute e senza pace, scrive qualcosa nel nulla, parole d’aria, forse il ricordo di chi era stato. La figlia gli accarezza le spalle con un gesto d’amore stanco.
Mi guardo in giro, a parte lui che nella mia testa ormai é già diventato ” il professore” vedo solo volti segnati da una vita ad aspettare i raccolti, a legare le viti e a pregare che il dio della grandine sia misericordioso.
Poi qualcuno mi si avvicina.
Oddio, ora mi domanderanno cosa ci faccio qui e mi linceranno.
Invece un omone impacciato e gentile mi chiede di aiutare lui e la moglie a compilare i fogli con i dati anamnestici.
Lo faccio.
Per loro.
E per Giuseppina, che ha ottant’anni e l’accento del sole, perché il sud ti resta dentro anche se stai da sempre in questa pianura di nebbia e zanzare.
Lei me lo chiede perché sono lì.
Devi essere un’insegnante, sei giovane. Questo é il tempo del Covid. Che alla mia età ancora sei una ragazzina.
Sono una psicologa Giuseppina.
Una psicologa? La vuoi sentire la mia storia?
E io la sto ad ascoltare. Perché questo so fare. E mi viene un po’ da piangere.
E le cedo il mio posto così può tornare prima dal figliolone disabile che l’aspetta a casa.
Poi arriva il mio turno.
Mi maledico perché mi sono messa i tacchi e mi si nota ancora di più e poi questi cazzo di tatuaggi sul braccio…
Balbetto una serie di scuse, fra cui che il decreto legge di aprile mi obbliga a vaccinarmi.
Una dottoressa bellissima, di una bellezza di rughe e fatica, mi dice che non devo sentirmi in colpa, che é un mio diritto, un mio dovere e che un paese che non si prende cura di chi cura é un paese incivile.
Finalmente mi fanno questo vaccino.
Proprio sopra al tatuaggio.
Ripenso ai miei di virus.
All’ epatite che non mi lascia mai.
A cosa vuol dire per me la parola immune.
Mi viene un sorriso ebete.
Un senso di orgoglio come nei film americani quando sventola la bandiera.
E un amore per il genere umano che guarda, neanche Gandhi.
Fuori trovo Giuseppina ad aspettarmi.
Volevo ringraziarti Dottoré, mi ha fatto bene parlare con te.
Vorrei dirle, Giuseppì grazie a te, mi hai fatto ritrovare il senso di quello che sono.
Invece le dico
Come sei venuta? Ti accompagno a casa?
Sono in bicicletta, non preoccuparti Dottoré.
Rimango ferma, a guardarla pedalare da lontano.
E improvvisamente penso a certe cose cattive che ho letto sui social e mi dico che il mondo, quello vero, é fatto di Giuseppine, talmente impegnate a non affogare nel dolore che il tempo per odiare non ce l’hanno proprio.

Xanax

A marzo ho messo le lucine fuori di casa, come se fosse Natale.
Se passate di qui le vedete ancora, accese, sulle pietre di questa vecchia casa, attorcigliate al glicine infreddolito. Non sono brava con questa cosa dello spegnere.
E lo ammetto, sono una di quelle che ha fatto le torte di mele, che se devi passare da 100 a 0 in un secondo almeno le mani devi tenerle occupate.
Ne ho fatte così tante che secondo i miei calcoli non dovrei più vedere un medico per i prossimi due secoli.
La buona notizia é che, vivendo in una specie di eremo, mi sono risparmiata le cantate sui balconi e gli arcobaleni, cosa suoni a fare se non c’è nessuno che ti ascolta.
A parte queso ho esibito tutto il repertorio della lock downer perfetta, un misto fra commozione e fiducia nell’umanitá, insomma, come dice un caro amico, Barbara D’Urso me spicciava casa.
Poi, poco prima del primo giorno di primavera, ho trovato un gatto della mia colonia morto.
Si era trascinato fino alle cucce che avrebbero dovuto tenerlo al riparo ed era rimasto lì, bello e immobile con un filo di sangue al lato della bocca.
Questo fanno le macchine ai randagi lenti.
Si chiamava Xanax perché era un esserino piccolo e ansioso.
Viveva nascosto ma quando il Covid ha congelato il mondo ha trovato il coraggio di farsi vedere.
E stava fermo, in mezzo a una strada vuota ad annusare i raggi di sole.
Io glielo dicevo di non fidarsi,
ma non mi ascoltava.
Un po’ perché era bianco, quindi sordo, la genetica ha uno strano senso dell’umorismo, e un po’ perché era un gatto e più ribelli dei gatti ci sono solo i figli.
L’ho accarezzato per la prima volta che già non c’era più.
E ho capito tre cose, che era una femmina, che era incinta e che no, non sarebbe andato bene un cazzo. Non saremmo cambiati mai.
Lo so voi ci eravate già arrivati leggendo Chomsky e Schopenhauer.
Io no.
A me queste stilettate di cristallo arrivano così, magari mentre avvolgo un micio morto in una coperta, che fa freddo lì dove deve andare.
E mentre dicevo la mia preghiera laica per Xanax, che finalmente non aveva più paura, ho pensato che eravamo tutti come la macchina che l’aveva investita.
Stavamo andando troppo veloci e non saremmo riusciti a frenare in tempo e cambiare strada o semplicemente a fermarci un attimo sul ciglio a ricordare perché stavamo correndo.
Le persone fragili sarebbero uscite allo scoperto tradite dal silenzio e si sarebbero fatte travolgere.
I deboli sarebbero stati sempre più deboli.
I rancorosi sempre più incazzati.
Gli stupidi ? Quelli avrebbero tenuto comizi.
Da lì in poi non mi ha più stupito niente,
dalle botte di Colleferro fino ai no vax.
Niente mi sorprende più, nemmeno Renzi e questo la dice lunga sul disincanto.
Che poi aveva ragione Stephen King, certo non sarà Sartre ma il lato oscuro lo abita da sempre.
Alla fine di tutto, quando il tempo si fa nero, esistono solo 3 tipi di persone.
Quelli che sognano Mother Abigaille.
Quelli che sognano Randal Flagg.
E quelli che non sognano affatto.
( sì lo so, questa é per pochi, ma quei pochi mi hanno capito)

Nella foto uno dei miei gatti a caso, perché i gattini fanno “audience”

Chiaroscuro

La prima volta che ho sentito la parola rapimento avevo nove anni.
Tornavamo da un gita in un paesino grigio vicino alla Svizzera, uno di quelli in cui piove sempre. Stavo rannicchiata sul sedile posteriore della nostra A112, mia madre guidava e discuteva con un’amica. Dicevano del figlio di una conoscente, rapito a sedici anni e ritrovato morto in una discarica, non molto lontano da quel tratto di autostrada. Parlavano a voce alta con la noncuranza degli adulti che si dimenticano che tu mica lo sai che il male esiste.
Quella notte non ho dormito, non mi toglievo dalla testa Paolo, caricato a forza su una macchina in una strada a pochi metri da dove viveva, ucciso forse dal cloroformio e poi buttato fra i rifiuti.
Per quasi un mese, nel tragitto fra casa e scuola camminavo contro i muri, lontano dalla strada, nessuno mi aveva spiegato che era un triste privilegio riservato ai ricchi, così pensavo che qualcuno avrebbe potuto portare via anche me. Poi i sequestri sono diventati un’abitudine. Dei nomi nel telegiornale delle otto. Siamo cresciuti così, ad aspettare dei ritorni. Il TG lo guardavo con mia nonna, le erano morti due figli giovani e ogni volta commentava: O Signur, chissà quella poverina di sua mamma.
Credo lo abbia detto anche quando hanno rapito Aldo Moro, perché di politica non ne sapeva niente, ma quello strazio lí lo conosceva benissimo.
A volte dopo cena veniva la Margí, una vicina di casa vestita di nero, con i capelli d’argento raccolti in una crocchia perfetta, recitavano il rosario, che era il loro modo di sistemare l’entropia.
E poi la Madonna aveva perso un figlio anche lei e una buona parola ce l’avrebbe messa.
Io restavo ipnotizzata a guardare i servizi su chi era stato rilasciato, magari dopo un anno in un buco in Aspromonte, mi sembrava sempre che quelli che tornavano non fossero mai uguali a quelli che erano stati presi. E non era per la magrezza. Qualcuno aveva persino notato che Cesare Casella dopo la prigionia era ingrassato, perché qualche pirla che misurava la sofferenza in chilogrammi c’era già. Erano gli occhi ad essere diversi. A me veniva sempre in mente un racconto di Buzzati, quello di un soldato che tornava dalla battaglia e non si toglieva mai un lungo mantello. O forse pensavo alla canzone di Vecchioni che si ispirava a Buzzati, non vorrei tirarlmela da intellettuale precoce.
A modo nostro siamo vissuti in tempi di guerra.
Ogni liberazione per noi, che abbiamo visto le bombe ammazzare persone stanche che sognavano il mare, era una grande gioia.
Quando ho sentito che Silvia stava arrivando ho pensato subito a sua madre e al mantello. L’ho fatto ancora prima di vedere lo hijab verde. Ma soprattutto mi sono sentita felice. Ho continuato a esserlo, anche dopo lo hijab.
Non volevo scrivere di Silvia niente di più che bentornata a casa. Ogni parola é una violenza. E volevo augurarle tempo, tempo per riannusarsi con quelli del suo branco, per conoscerli e riconoscersi di nuovi, tempo per togliersi il mantello e magari trovarci sotto ancora un velo, perché la libertà é anche questa cosa qui.
Poi ho letto gli insulti e mi sono ritrovata piccola, sul sedile della A112, a cinquant’anni ho imparato che l’orrore esiste e siccome sono una donna l’ho imparato più in fretta, ma faccio ancora fatica ad accettare la banalitá del male.
Io non lo so mica quando siamo diventati così. E quest’odio qui, verso la nostra “meglio gioventù” non é una cosa che ha a che fare con il genere, la politica, la ricchezza e la povertà.
Odiamo chiunque fa qualcosa per gli altri, la gratuità del dare, forse perché il loro fare dice molto del nostro stare fermi. I ragazzi che ci provano a cambiarlo questo mondo ci ricordano che noi non ci siamo riusciti e forse non ci abbiamo nemmeno tentato.
Siamo stati più poveri.
Abbiamo avuto più paura.
Non siamo mai stati così stronzi.

Creature di terra

Auguri a tutte le madri.
E a chi pur non essendo madre si prende cura, di qualsiasi cosa, che sia un gatto, un cane o un canarino.
Un orto,
un sogno,
un progetto,
un’idea.
Auguri a chi in questo mondo ha scelto di non voltarsi mai dall’altra parte, che non puoi aiutarli tutti,ma almeno con chi incrocia la tua strada ci devi provare, cazzo!.
Auguri a chi tenta di tenere insieme le cose, che piange forte la tristezza e ci fa caso a quando é felice.
Auguri a chi ha il coraggio di lasciare quando l’amore diventa tossico.
E anche a chi questo coraggio non ce l’ha, perché quando hai respirato solo orrore non ci riesci a capirla la differenza e magari non ci sei nemmeno più a leggere questi auguri perché qualcuno che diceva di amarti ti ha ammazzata.
E auguri al mio uomo, che invece l’amore, quello vero, sa cos’è, e mi ha insegnato a vedermi bella e ancora dopo una vita mi fa sentire cosí.
Auguri a chi un figlio non ha voluto o potuto tenerlo, e a tutti quelli che rispettano questo diritto di scelta.
Auguri a Silvia, figlia di tutte noi, che ora é tornata a casa.
Auguri a chi un figlio non lo ha più, anche se per questo strazio io mica le riesco a trovare le parole .
Auguri a mia madre, affascinante, complicata e imperfetta, che recita Foscolo a memoria e a novant’anni ha imparato a usare la mascherina, ma non senza truccarsi gli occhi e indossare una collana di perle.
E auguri a mio figlio che una notte di maggio di diciannove anni fa mi ha reso madre, e ha incollato con uno sguardo tutti i miei pezzi, i pieni, i vuoti, le ossa e i confini. Te l’ho già detto, sei tu la bussola di Capitan Sparrow, mi hai portato esattamente dove avevo bisogno di andare.
Auguri a chi usa la sua di testa e poi ci mette anche un po’ di anima, sempre, che sia per trovare la cura per questo virus bastardo o per fare la pasta alla carbonara.
Auguri a tutte noi,
creature di terra,
perché tutte siamo madri, a modo nostro.

L’amore al contrario

Sopporto con classe le scie chimiche, i terrapiattisti e complottisti di ogni genere. Se qualcuno mi declama una teoria strampalata sulla relazione fra la CIA e la panna nella carbonara io sorrido e annuisco, perché molti anni fa, quando lavoravo con gli psicotici ho imparato che non si butta via niente, nemmeno il delirio più nero. Ma con il Covid e i vaccini proprio non ci riesco, leggo, mi arrabbio, intervengo, discuto, cancello amicizie. Insomma non mi riconosco. Se fai la psicoterapeuta non puoi non interrogarti su cosa ti succede, non puoi permetterti di non distinguere fra quello che é tuo e quello che é del paziente che ti siede di fronte, altrimenti rischi di alzarti durante una seduta e urlare sono tutte minchiate e poi tornare sulla poltrona verde, rimetterti gli occhiali, accavallare le gambe e dire con tono pacato ” Dunque mi stava dicendo che uccide di più l’influenza…”
Così oggi mi sono raccontata la mia storia.
A cinque anni ho avuto l’epatite B.
Un giorno ho iniziato a vomitare e non ho smesso più.
Mia madre ha detto:
É acetone!
Chi non ha la mia età non sa neppure cosa sia, ma quando io ero piccola tutto dipendeva da questo. Ti facevano fare la pipì su degli stick e se cambiavano colore eri fottuto, ti aspettavano giorni di riso in bianco e orrende bustine di biochetasi.
Mio padre era medico. Credo abbia pronunciato una frase memorabile tipo:
Acetone un cazzo!
Poi mi ha preso in braccio e mi ha ricoverato nel suo ospedale.
Di quei giorni mi ricordo solo Maria, che lavorava in laboratorio nell’interrato e veniva in camera per distrarmi, faceva magie con le provette, da gialle diventavano blu e rosa acceso, che i bambini a volte fanno questa cosa qui, dimenticano il brutto e ricordano la magia.
Se ti ammali di epatite B da piccola hai ottime possibilità che il virus ti trovi accogliente e decida di fermarsi, anche tutta la vita.
La mia infanzia é stata scandita da esami del sangue e attese di risultati.
A dieci anni sapevo già la differenza fra anticorpi e antigeni.
Nel frattempo mio padre era morto, in tre mesi di un cancro ai polmoni.
Perché sarà stato anche un bravo medico, ma fumava due pacchetti di Marlboro al giorno ed era sfigato.
Io stavo nel mio limbo, non più malata ma non del tutto sana, un gran casino.
Mia madre, quella dell’acetone, aveva collezionato una collana di lutti talmente difficile da indossare che proprio non poteva permettersi di perdere anche me. Mi portava in pellegrinaggio da specialisti spocchiosi e mi costringeva a mangiare intrugli macrobiotici che ora sono di moda, ma a quei tempi trovavi solo in certi negozietti in centro a Milano, frequentati da signore bene con la erre moscia e sciroccati assortiti.
Crescendo sono diventata una portatrice sana, quella che in questi giorni chiameremmo asintomatica. Ero una portatrice sana anche di una tonnellata di tristezza e di gomitoli di rabbia, nella mia testa da adolescente lampeggiava una scritta al neon, infetta. Punto.
Non potevo fare un milione di cose, ubriacarmi, donare sangue, ma soprattutto non riuscivo ad avere la leggerezza delle mie amiche.
Le malattie sessualmente trasmissibili si portano dietro uno zaino pesante di colpa e vergogna.
All’università ero un’ombra vestita di nero, avevo i capelli tagliati a spazzola,mi piacevano i Cure, non mangiavo niente e il niente era ancora troppo.
Facevo volontariato con i malati di Aids, in un reparto di tossicodipendenti scheletrici e transessuali belli e teatrali anche nel dolore. In quegli anni non ci andava nessuno da quei malati lì, io non avevo paura, mi sembrava di capirli. O forse ero già buonista a vent’anni. Mi sono laureata con una tesi sull’accompagnanento del morente, ho tempi biblici di elaborazione del lutto. L’ho dedicata a mio padre e all’Armando, un tossico della Bovisa con l’accento siciliano, che dalla vita non aveva avuto niente e mi aspettava tutti i giovedì, lui piangeva e io mi toglievo i guanti per tenergli la mano. Finché un giovedì lui non c’è stato più . E in qualche modo mi è sembrato di chiudere un cerchio.
Poi ho iniziato il primo di molti percorsi analitici, ho incontrato l’uomo della mia vita, abbiamo deciso di avere un figlio.
Il giorno in cui ho scoperto di essere incinta ho smesso di tagliarmi i capelli e ho accettato finalmente il mio corpo che aveva saputo fare quella cosa meravigliosa. Al quinto mese di gravidanza mi è venuta la varicella. A Natale mi sono svegliata nella nostra casa in montagna, fuori c’era la neve, io ero completamente coperta di pustole rosse, avevo la febbre altissima e mi sembrava che qualcuno mi avesse piantato un coltello in una spalla. Notti deliranti in cui devo avere pensato, fra l’altro, “fanculo l’immunità di gregge”.
Non avevo un Dio da pregare, così parlavo con la placenta, cerca di essere forte, ferma questo schifo. Le settimane successive sono state un incubo. L’ambulatorio della Mangiagalli per le malattie infettive in gravidanza è uno scantinato pieno di donne di tanti colori che dicono l’angoscia in lingue diverse. Dovevo fare un’ecografia ogni quindici giorni perché l’herpes virus ai feti può fare un sacco di cose,fra cui fermare lo sviluppo degli arti. Il giorno mi sono detta che quel fagiolo, che aveva già il profilo di suo padre nella morfologica, io lo amavo alla follia, braccio più, braccio meno, mi sono alzata e non ci sono tornata più. Inshallah come dicevano le donne con il velo che aspettavano con me, appese a una parola di un camice bianco. Poi solo giorni bellissimi, a guardarmi la pancia, a prepararmi per il parto.
Al nono mese avevo già i codini, facevo yoga, ascoltavo Manu Chao e le mie transaminasi sono schizzate verso le stelle.
La ginecologa parlava di cesareo, il prima possibile, blaterando di gestosi e altre tragedie che avevo sentito solo in E.R.
Io quel figlio volevo farlo a modo, con le doglie, le bestemmie per il male, le lune e le maree. E così è stato. Federico è nato in una notte di diluvio, diciannove anni fa, con tutti gli arti al posto giusto e degli occhi che ti trapassano il cuore. Lui era meraviglioso. Io stavo malissimo. Mi dicevano di allattare, non ci riuscivo, e avevo questa stanchezza, come mille donne stanche tutte insieme. Lui aveva fame e io ero una madre di merda perché non riuscivo a sfamarlo.
Dopo dieci giorni di ricovero mi hanno diagnosticato di nuovo l’epatite, molto più aggressiva di quando ero bambina. Ai virus piace cambiare, sono come le scale di Hogwarts. Fra una biopsia e l’altra ho continuato a sentirmi una madre di merda, perché avrei potuto ucciderlo con il mio latte. E l’espressione sangue del mio sangue mi dava i brividi.
I virus fanno anche questo, ti rendono pericoloso per chi ami e ti costringono a ripensarlo l’amore.
È un amore alla rovescia,come nelle poesie di Rodari.
A volte l’amore è un biberon.
A volte è pensarsi infetti anche se magari non lo si è.
A volte è una mascherina.
A volte un metro di distanza. A volte una passeggiata di meno al parco.
A volte è un preservativo.
Quando si è molto, molto, molto fortunati l’amore è un vaccino.

Milano e le rondini

Oggi dal sagrato della chiesa si vede la città.
Di solito c’è solo una pianura infinita che d’inverno ti sembra di sentirlo nelle ossa il respiro ghiacciato della nebbia e d’estate lo vedi persino il caldo, quello vero, quello che strozza la gola alle rane come cantava Guccini.
Ma nelle giornate di vento come questa, poco davanti alle grandi montagne, appare la Skyline di Milano.
Grattacieli venuti su in un lampo, con la fretta di chi voleva prendersi l’Europa. Li ho guardati crescere da lontano, con orgoglio, perché Milano, se ci hai vissuto, ti fa questa cosa, anche quando non ci sei nata e non ci abiti più, ti fa sentire parte di qualcosa di grande. E ti dá quel modo di fare indifferente, di chi ha già visto tutto, e lo ha fatto meglio, che tanto sta sui coglioni a chi di Milano non è.
Io ci sono arrivata a sei anni, portandomi dietro la malinconia del lago e la cadenza cantilenante di quelli di Brescia, per anni mi sono sentita dire da persone con le vocali aperte e l’articolo davanti al nome “ma tu non sei mica di qui”.
Un giorno in uno di quei paesi nordici in cui il distanziamento sociale è uno stile di vita qualcuno mi ha chiesto se venivo dal sud Italia, io ho riso, lui mi ha risposto che per loro siamo tutti uguali, siamo quelli che parlano la lingua del sole e mi è sembrata una cosa bellissima e ho pensato che a volte le cose per vederle tutte unite bisogna guardarle da lontano.
Accento a parte, vivere a Milano per me è sempre stata una grande fatica, ero sempre un passo indietro, fuori Sync come in un film doppiato male.
E siccome sono una perdente perdo un sacco di cose, motivazioni, rimpianti, chiavi di casa, un giorno ho perso anche il senso di cosa ci facevo lì.
Con mio marito abbiamo scelto questo borgo in cima a una collina, in una terra di mezzo non ancora Emilia e non più Lombardia.
Un paese senza un negozio nè un bar, dove non avevamo radici nè fantasmi, pieno di gatti randagi come noi. Un posto dove costruire ricordi che fossero solo nostri.
A nostro figlio abbiamo regalato un’infanzia di grandi cani quieti e libertà assoluta. E poi un’adolescenza di mattine gelate e treni puzzolenti, perennemente in ritardo, da prendere all’alba per andare a scuola. A diciannove anni è già incazzato come un vecchio pendolare, perché ogni cosa ha la sua ombra, ma ovunque deciderà di vivere la sua vita si porterà quel senso di caldo e di buono che ha respirato da piccolo , come quando fuori fa freddo e qualcuno ti accoglie con un camino acceso. E questa cosa qui non potrà portargliela via nessuno, mai.
Questi due mesi di isolamento sono stati facili per me, ho potuto piantare fiori fucsia, mi ero già lasciata diventare i capelli bianchi e non ho la ricrescita, mi serviva poco per essere felice, ho scoperto di avere bisogno di ancora meno. Dieci anni in un paese di contadini mi hanno insegnato che quando fuori c’è troppa neve, semplicemente ci si siede ad aspettare che il tempo migliori e magari ci si beve su un po’ di rosso. La gente di qui è gente di terra, vive la pandemia con la rassegnazione di chi guarda la grandine portarsi via il raccolto e già pensa che appena sorge il sole deve uscire a legare le viti. I morti hanno tutti un nome, una storia e campane tristi che suonano al mattino. Si piange ancora quando un vecchio va via, che qui a novant’anni vai sul trattore e non sei d’ impiccio per nessuno.
Da un’ora fisso Milano e mi sembra di sentire l’energia trattenuta che sta per esplodere, domani si ricomincia a correre, con il respiro corto dietro alle mascherine. E mi sento fortunata, perché io non corro più, sto qui ad aspettare che tornino le rondini.

Bella Ciao

Stamattina sono andata a portare la colazione a mia madre. Abita a pochi metri da me, in questo borgo bellissimo che io ho scelto quando ho capito che la città era una gabbia e che lei ha accettato per osmosi, perché casa è dove ci siamo io e suo nipote, ma che continua a vivere con la diffidenza di una sciura milanese in esilio.
La colazione gliela porto ogni mattina, dopo essere andata a dare da mangiare ai gatti e lei mi ringrazia con lo stesso affetto schivo dei randagi che curo. Ogni mattina, mi chiede che giorno è, che il tempo dei vecchi è questo casino qui, di passato remoto e futuro brevissimo e a volte credo che se non ci fossi io a cucirli caparbiamente insieme lei si dissolverebbe come un acquerello.
É il venticinque aprile mamma.
Lo sapevo che avrebbe iniziato a parlarmi della sua guerra, la conosco a memoria, ma oggi il pensiero che ad ottobre avrà novant’anni e che potrebbe essere l’ultima volta che la racconta mi é entrato dentro come una coltellata.
Mi è venuto il magone.
A volte vorresti avere una mascherina anche per gli occhi.
Mi sono seduta e ho ascoltato.
Di quella notte nel rifugio della stazione centrale, quando doveva prendere il treno per il collegio ma il cielo aveva iniziato a vomitare bombe, tutti stretti uno all’altro,con l’odore della paura a riempire il buio. Della divisa da giovane italiana.
E di quando é arrivata la guardia civile repubblicana a cercare qualcuno e hanno messo lei e i suoi quattro fratelli in ginocchio con la faccia contro il muro.
Di mio nonno che avrebbe voluto fare il prete e poi ha incontrato la Margherita, hanno fatto cinque figli, non si sono amati mai, e dentro era rimasto un prete e aiutava tutti, così in cantina c’era sempre qualcuno nascosto. Non faceva domande, accoglieva e basta, ed era questa la sua fede.
Della nostra grande casa al lago, requisita dai fascisti per farci un’infermeria durante la repubblica di Salò e dei soldati tedeschi che suonavano il piano a coda nel salone pieno di scricchiolii che tanto mi terrorizzava da bambina. E poi gli americani talmente belli da farti dimenticare che le bombe erano le loro.
È stata una liberazione senza colori quella di mia madre, come quella di tante persone normali, travolte dalla storia, nè fascisti nè partigiani. La liberazione dalla paura.
Poi c’è stata quella di mio padre, che il tempo per dirlmela non lo ha avuto. So solo che il nonno Davide era un antifascista convinto, uno di quelli che pur di non prendere la tessera del partito si é fatto licenziare, anni di fame, rifugiati dagli zii nella bassa, che per un contadino dove mangia uno si può mangiare in dieci e mi immagino l’aria immobile che sa di stalla e la nebbia nei polmoni. Il suo venticinque aprile è stato rosso, come tutta la sua vita. Da piccola mi cantava Fischia il Vento e per I Morti di Reggio Emilia come ninna nanna,così, quando da adolescente ho dovuto scegliere fra il mito di mio padre e la presenza bella e inquieta di mia madre non ho avuto dubbi, chi muore giovane ha sempre più fascino.
Ho portato mio figlio in manifestazione a un anno, tenendolo nella fascia, sotto l’ombrello, perché il venticinque aprile piove sempre, tranne oggi e questo dice molto sulle idee politiche di Dio. Lo tenevo stretto contro il cuore.
Volevo che respirasse quello in cui credevo. Più tardi avrei capito che quella cosa non esisteva più e io non lo perdono a questa sinistra scolorita di avere iniziato a correggere i congiuntivi altrui e di essersi dimenticata di lottare.
Sono incazzata, ma una lacrimuccia su Bella Ciao non me la sono mai fatta mancare.
Quest’anno no. Non riesco proprio a festeggiare.
Perché la nostra memoria la abbiamo lasciata morire negli ospizi che per essere moderni chiamiamo RSA o in qualche appartamento modesto, in cittá troppo veloci per fermarsi a piangere.
E quando leggiamo l’età media di chi si è portato via il Covid sentiamo una specie di sollievo e abbiamo persino il coraggio di chiederci se valeva la pena di mettere in discussione tutto per una cosa che in fondo non ci riguarda.
Ma cosa cazzo speriamo di insegnare ai nostri figli se non siamo riusciti a proteggere i nostri vecchi?
Se io mi sento libera anche chiusa in una casa da due mesi lo devo alle idee di mio padre e all’amore goffo di mia madre.
Io il mio venticinque aprile l’ho celebrato ascoltando la sua voce, perché quando l’ultima come lei volerà via la liberazione sarà solo una pagina su un libro di storia.