
La prima volta che ho sentito la parola rapimento avevo nove anni.
Tornavamo da un gita in un paesino grigio vicino alla Svizzera, uno di quelli in cui piove sempre. Stavo rannicchiata sul sedile posteriore della nostra A112, mia madre guidava e discuteva con un’amica. Dicevano del figlio di una conoscente, rapito a sedici anni e ritrovato morto in una discarica, non molto lontano da quel tratto di autostrada. Parlavano a voce alta con la noncuranza degli adulti che si dimenticano che tu mica lo sai che il male esiste.
Quella notte non ho dormito, non mi toglievo dalla testa Paolo, caricato a forza su una macchina in una strada a pochi metri da dove viveva, ucciso forse dal cloroformio e poi buttato fra i rifiuti.
Per quasi un mese, nel tragitto fra casa e scuola camminavo contro i muri, lontano dalla strada, nessuno mi aveva spiegato che era un triste privilegio riservato ai ricchi, così pensavo che qualcuno avrebbe potuto portare via anche me. Poi i sequestri sono diventati un’abitudine. Dei nomi nel telegiornale delle otto. Siamo cresciuti così, ad aspettare dei ritorni. Il TG lo guardavo con mia nonna, le erano morti due figli giovani e ogni volta commentava: O Signur, chissà quella poverina di sua mamma.
Credo lo abbia detto anche quando hanno rapito Aldo Moro, perché di politica non ne sapeva niente, ma quello strazio lí lo conosceva benissimo.
A volte dopo cena veniva la Margí, una vicina di casa vestita di nero, con i capelli d’argento raccolti in una crocchia perfetta, recitavano il rosario, che era il loro modo di sistemare l’entropia.
E poi la Madonna aveva perso un figlio anche lei e una buona parola ce l’avrebbe messa.
Io restavo ipnotizzata a guardare i servizi su chi era stato rilasciato, magari dopo un anno in un buco in Aspromonte, mi sembrava sempre che quelli che tornavano non fossero mai uguali a quelli che erano stati presi. E non era per la magrezza. Qualcuno aveva persino notato che Cesare Casella dopo la prigionia era ingrassato, perché qualche pirla che misurava la sofferenza in chilogrammi c’era già. Erano gli occhi ad essere diversi. A me veniva sempre in mente un racconto di Buzzati, quello di un soldato che tornava dalla battaglia e non si toglieva mai un lungo mantello. O forse pensavo alla canzone di Vecchioni che si ispirava a Buzzati, non vorrei tirarlmela da intellettuale precoce.
A modo nostro siamo vissuti in tempi di guerra.
Ogni liberazione per noi, che abbiamo visto le bombe ammazzare persone stanche che sognavano il mare, era una grande gioia.
Quando ho sentito che Silvia stava arrivando ho pensato subito a sua madre e al mantello. L’ho fatto ancora prima di vedere lo hijab verde. Ma soprattutto mi sono sentita felice. Ho continuato a esserlo, anche dopo lo hijab.
Non volevo scrivere di Silvia niente di più che bentornata a casa. Ogni parola é una violenza. E volevo augurarle tempo, tempo per riannusarsi con quelli del suo branco, per conoscerli e riconoscersi di nuovi, tempo per togliersi il mantello e magari trovarci sotto ancora un velo, perché la libertà é anche questa cosa qui.
Poi ho letto gli insulti e mi sono ritrovata piccola, sul sedile della A112, a cinquant’anni ho imparato che l’orrore esiste e siccome sono una donna l’ho imparato più in fretta, ma faccio ancora fatica ad accettare la banalitá del male.
Io non lo so mica quando siamo diventati così. E quest’odio qui, verso la nostra “meglio gioventù” non é una cosa che ha a che fare con il genere, la politica, la ricchezza e la povertà.
Odiamo chiunque fa qualcosa per gli altri, la gratuità del dare, forse perché il loro fare dice molto del nostro stare fermi. I ragazzi che ci provano a cambiarlo questo mondo ci ricordano che noi non ci siamo riusciti e forse non ci abbiamo nemmeno tentato.
Siamo stati più poveri.
Abbiamo avuto più paura.
Non siamo mai stati così stronzi.