L’amore al contrario

Sopporto con classe le scie chimiche, i terrapiattisti e complottisti di ogni genere. Se qualcuno mi declama una teoria strampalata sulla relazione fra la CIA e la panna nella carbonara io sorrido e annuisco, perché molti anni fa, quando lavoravo con gli psicotici ho imparato che non si butta via niente, nemmeno il delirio più nero. Ma con il Covid e i vaccini proprio non ci riesco, leggo, mi arrabbio, intervengo, discuto, cancello amicizie. Insomma non mi riconosco. Se fai la psicoterapeuta non puoi non interrogarti su cosa ti succede, non puoi permetterti di non distinguere fra quello che é tuo e quello che é del paziente che ti siede di fronte, altrimenti rischi di alzarti durante una seduta e urlare sono tutte minchiate e poi tornare sulla poltrona verde, rimetterti gli occhiali, accavallare le gambe e dire con tono pacato ” Dunque mi stava dicendo che uccide di più l’influenza…”
Così oggi mi sono raccontata la mia storia.
A cinque anni ho avuto l’epatite B.
Un giorno ho iniziato a vomitare e non ho smesso più.
Mia madre ha detto:
É acetone!
Chi non ha la mia età non sa neppure cosa sia, ma quando io ero piccola tutto dipendeva da questo. Ti facevano fare la pipì su degli stick e se cambiavano colore eri fottuto, ti aspettavano giorni di riso in bianco e orrende bustine di biochetasi.
Mio padre era medico. Credo abbia pronunciato una frase memorabile tipo:
Acetone un cazzo!
Poi mi ha preso in braccio e mi ha ricoverato nel suo ospedale.
Di quei giorni mi ricordo solo Maria, che lavorava in laboratorio nell’interrato e veniva in camera per distrarmi, faceva magie con le provette, da gialle diventavano blu e rosa acceso, che i bambini a volte fanno questa cosa qui, dimenticano il brutto e ricordano la magia.
Se ti ammali di epatite B da piccola hai ottime possibilità che il virus ti trovi accogliente e decida di fermarsi, anche tutta la vita.
La mia infanzia é stata scandita da esami del sangue e attese di risultati.
A dieci anni sapevo già la differenza fra anticorpi e antigeni.
Nel frattempo mio padre era morto, in tre mesi di un cancro ai polmoni.
Perché sarà stato anche un bravo medico, ma fumava due pacchetti di Marlboro al giorno ed era sfigato.
Io stavo nel mio limbo, non più malata ma non del tutto sana, un gran casino.
Mia madre, quella dell’acetone, aveva collezionato una collana di lutti talmente difficile da indossare che proprio non poteva permettersi di perdere anche me. Mi portava in pellegrinaggio da specialisti spocchiosi e mi costringeva a mangiare intrugli macrobiotici che ora sono di moda, ma a quei tempi trovavi solo in certi negozietti in centro a Milano, frequentati da signore bene con la erre moscia e sciroccati assortiti.
Crescendo sono diventata una portatrice sana, quella che in questi giorni chiameremmo asintomatica. Ero una portatrice sana anche di una tonnellata di tristezza e di gomitoli di rabbia, nella mia testa da adolescente lampeggiava una scritta al neon, infetta. Punto.
Non potevo fare un milione di cose, ubriacarmi, donare sangue, ma soprattutto non riuscivo ad avere la leggerezza delle mie amiche.
Le malattie sessualmente trasmissibili si portano dietro uno zaino pesante di colpa e vergogna.
All’università ero un’ombra vestita di nero, avevo i capelli tagliati a spazzola,mi piacevano i Cure, non mangiavo niente e il niente era ancora troppo.
Facevo volontariato con i malati di Aids, in un reparto di tossicodipendenti scheletrici e transessuali belli e teatrali anche nel dolore. In quegli anni non ci andava nessuno da quei malati lì, io non avevo paura, mi sembrava di capirli. O forse ero già buonista a vent’anni. Mi sono laureata con una tesi sull’accompagnanento del morente, ho tempi biblici di elaborazione del lutto. L’ho dedicata a mio padre e all’Armando, un tossico della Bovisa con l’accento siciliano, che dalla vita non aveva avuto niente e mi aspettava tutti i giovedì, lui piangeva e io mi toglievo i guanti per tenergli la mano. Finché un giovedì lui non c’è stato più . E in qualche modo mi è sembrato di chiudere un cerchio.
Poi ho iniziato il primo di molti percorsi analitici, ho incontrato l’uomo della mia vita, abbiamo deciso di avere un figlio.
Il giorno in cui ho scoperto di essere incinta ho smesso di tagliarmi i capelli e ho accettato finalmente il mio corpo che aveva saputo fare quella cosa meravigliosa. Al quinto mese di gravidanza mi è venuta la varicella. A Natale mi sono svegliata nella nostra casa in montagna, fuori c’era la neve, io ero completamente coperta di pustole rosse, avevo la febbre altissima e mi sembrava che qualcuno mi avesse piantato un coltello in una spalla. Notti deliranti in cui devo avere pensato, fra l’altro, “fanculo l’immunità di gregge”.
Non avevo un Dio da pregare, così parlavo con la placenta, cerca di essere forte, ferma questo schifo. Le settimane successive sono state un incubo. L’ambulatorio della Mangiagalli per le malattie infettive in gravidanza è uno scantinato pieno di donne di tanti colori che dicono l’angoscia in lingue diverse. Dovevo fare un’ecografia ogni quindici giorni perché l’herpes virus ai feti può fare un sacco di cose,fra cui fermare lo sviluppo degli arti. Il giorno mi sono detta che quel fagiolo, che aveva già il profilo di suo padre nella morfologica, io lo amavo alla follia, braccio più, braccio meno, mi sono alzata e non ci sono tornata più. Inshallah come dicevano le donne con il velo che aspettavano con me, appese a una parola di un camice bianco. Poi solo giorni bellissimi, a guardarmi la pancia, a prepararmi per il parto.
Al nono mese avevo già i codini, facevo yoga, ascoltavo Manu Chao e le mie transaminasi sono schizzate verso le stelle.
La ginecologa parlava di cesareo, il prima possibile, blaterando di gestosi e altre tragedie che avevo sentito solo in E.R.
Io quel figlio volevo farlo a modo, con le doglie, le bestemmie per il male, le lune e le maree. E così è stato. Federico è nato in una notte di diluvio, diciannove anni fa, con tutti gli arti al posto giusto e degli occhi che ti trapassano il cuore. Lui era meraviglioso. Io stavo malissimo. Mi dicevano di allattare, non ci riuscivo, e avevo questa stanchezza, come mille donne stanche tutte insieme. Lui aveva fame e io ero una madre di merda perché non riuscivo a sfamarlo.
Dopo dieci giorni di ricovero mi hanno diagnosticato di nuovo l’epatite, molto più aggressiva di quando ero bambina. Ai virus piace cambiare, sono come le scale di Hogwarts. Fra una biopsia e l’altra ho continuato a sentirmi una madre di merda, perché avrei potuto ucciderlo con il mio latte. E l’espressione sangue del mio sangue mi dava i brividi.
I virus fanno anche questo, ti rendono pericoloso per chi ami e ti costringono a ripensarlo l’amore.
È un amore alla rovescia,come nelle poesie di Rodari.
A volte l’amore è un biberon.
A volte è pensarsi infetti anche se magari non lo si è.
A volte è una mascherina.
A volte un metro di distanza. A volte una passeggiata di meno al parco.
A volte è un preservativo.
Quando si è molto, molto, molto fortunati l’amore è un vaccino.

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