Un anno fa è morto Chad.
Cosí all’improvviso.
In modo folle e imprevedibile, come era vissuto.
Aveva quattro anni.
Lo hanno trovato Andrea e Federico, sdraiato in giardino sulla ghiaia. Dormiva ma era volato via.
Chad non stava mai immobile.
Correva come se non ci fosse un domani, ti amava con se non esistesse altro al mondo, saturava ogni spazio.
Si muoveva anche nel sonno, a volte ululava a occhi chiusi, non poteva sprecare nemmeno un istante. Ora so che aveva ragione lui.
Io non c’ero.
Ed è un macigno.
Quando da casa hanno trovato il coraggio di chiamarmi, ero in un assurdo ristorante asiatico nella periferia di una ancora più assurda cittadina tedesca.
Qualcosa si è spezzato.
Nella mia mente la sua morte ha fatto il rumore assordante e secco di una quercia abbattuta da un fulmine.
La sua assenza è quello spazio bruciato nel bosco. Intorno la vita nasce e cresce, ma quel vuoto non si colma mai.
Avrei dovuto trovarlo io.
Quando appartieni a un cane, ne sei responsabile, sempre, non puoi lasciarlo partire per il ponte da solo.
Quando hai un figlio adolescente, che non può permettersi di urlare il dolore, dovresti essere lì ad urlarlo per lui.
Quella sera mi sono ubriacata, come non mi ricordo di avere fatto mai. Poi mi sono rannicchiata sotto la doccia e ho pianto anche le lacrime che i miei uomini non riuscivano a piangere.
Non ho più avuto il coraggio di partire, perché ho capito che le querce possono cadere e non c’è mai un saluto abbastanza amorevole che possa bastare per sempre.