Sono seduta sul mio muretto, è fatto di pietre antiche, irregolari, sono già calde, è il miracolo di questo settembre che si finge estate. Io sono immobile, assorbo il calore, come un animale che si prepara al letargo. Perfettamente allineata al mio presente, conclusa in me stessa.
Stamattina ho portato mio figlio in stazione prima dell’alba, poi ho raccolto le ultime verdure dal mio orto goffo, ho sfamato la colonia di gatti randagi, allattato un piccolo senza madre. Siedo, mi preparo ad ascoltare persone tristi, che, in fondo, è il senso del mio lavoro. Prendo la paura e provo a raccontarla con altre parole, le parole da sole possono ridisegnare mappe nuove, nuovi attracchi. Ho fatto tutto nel tempo giusto, il mio, posso concedermi questo lusso, stare, qui, ferma, ora.
Un anno fa non ricordo neppure dov’ero. Non ricordo  quante volte sono partita, i ritorni sí, quelli li rammento tutti.
E ricordo anche che in Patagonia ci sono dei grandi cani neri.
Hanno gli occhi di chi questa vita l’ha già vissuta un milione di volte.
Di un dottore, di una donna seduta ad attendere il suo uomo, di un soldato in trincea, di un bambino davanti al mare.
Hanno il passo quieto di chi finalmente il viaggio lo ha terminato e può riposare.
Ti camminano al fianco e ti portano esattamente dove devi andare, sanno la tua destinazione, ancora prima che la capisca tu. Siedono, pazienti, poi ti riaccompagnano. Sorridono della tua confusione, non ti giudicano. Scuotono le grandi orecchie pelose e pensano che non dovresti essere lí, in quel posto alla fine del mondo in cui potresti perderti, se non ci fossero loro.
Mi ricordo che in Thailandia le persone ti sorridono quando le fotografi e ti offrono il poco che hanno da mangiare. E tu non puoi non innamorarti. Anche il loro Dio sorride, i gatti entrano nei templi e sognano di essere monaci e forse lo sono stati.
Ricordo che in North Carolina, dopo l’uragano, l’aria sa di oceano lontano, di terra e di cuoio di stivali. Gli uomini hanno una galanteria antica, se ti incontrano chinano il capo, toccano un cappello immaginario e ti chiamano Lady. E tu ti vedi bellissima, perché nessuno ti ha mai chiamato così. Le donne di colore sono enormi e stupende, quando si vestono a festa mettono abiti attillati e sgargianti, ridono forte e non riesci a staccare lo sguardo da tutto quel fucsia, turchese e verde smeraldo. E vorresti sentirti anche tu così, almeno una volta nella vita,  perfetta nell’imperfezione.
Non ricordo quanto ho viaggiato, ma so che a un certo punto non ho più trovato il senso di tutto quel cercare.
E così a Hollywood Boulevard, fra stelle di granito e gente di plastica, sono entrata in una piccola casa bianca.
E’ il museo delle storie finite.
La gente ci porta pezzi di altre vite, lettere, abiti da sposa, diari interrotti. Vasi rotti e incollati di nuovo, pezzo su pezzo, con calma, in una sera di pioggia, di quelle che ti strozzano il cuore.
Un monumento all’assenza,  briciole che indicano la strada .
Ho comperato una borsa di tela bianca, con la scritta “emotional baggage”. Ci ho messo dentro i cani neri ( che tanto già sapevano che sarei tornata), i margarita messicani, il profumo di lemongrass e lime, gli inchini del sud. Ci ho messo anche la disperazione di un pomeriggio in Germania, le promesse disattese e le occasioni perse. Sopra a tutto ho ripiegato con cura le vite che ho incontrato nel cammino e pochi che ho potuto chiamare amici. In fondo puoi  partire veramente solo quando hai  un luogo a cui tornare. Io sono tornata a casa. E il vero viaggio inizia da qui…

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